“Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole.“
Da quando ho letto questo motto del progetto Parlare Civile, creato qualche anno fa da Redattore Sociale e dall’associazione Parsec, lo uso sempre per introdurre i miei interventi sul tema del linguaggio inclusivo.
Trovo che sia un messaggio molto potente perché mette in luce un aspetto fondamentale del nostro comunicare: le parole, di per sé, non sono sbagliate. Ma il modo in cui le mettiamo insieme e poi le usiamo per esprimere i nostri pensieri, può trasformarsi in un’arma di offesa e di mancanza di rispetto.
Le parole che scegliamo di usare danno forma al pensiero e al mondo intorno a noi.
Ciò che non nominiamo non esiste.
Ciò che nominiamo male, rimane incastrato tra le grate del pregiudizio.
E questo non ha a che fare solo con le parole che scegliamo per parlare di identità di genere.
Il linguaggio inclusivo è molto di più, e in questo articolo vedremo perché.
Cosa si intende per linguaggio inclusivo?
Soprattutto negli ultimi tempi, vi sarà capitato di leggere articoli o dibattiti sui social a proposito dell’introduzione del linguaggio inclusivo anche in italiano.
Le discussioni sull’uso di un simbolo vocalico neutro come lo schwa per rendere l’italiano più inclusivo, per esempio, hanno infuocato i social la scorsa estate.
Ma perché, quando parliamo di linguaggio inclusivo, si salta subito alle tematiche di genere?
Sappiamo che la nostra lingua presenta diversi ostacoli grammaticali che la rendono particolarmente rigida di fronte a un uso neutro, non declinato per genere. Ma l’inclusività abbraccia per definizione diverse sfere del nostro vivere sociale, e la considerazione delle differenze di genere non è l’unica che valga la pena considerare.
Il dizionario Oxford Languages definisce l’inclusività come la tendenza a estendere a quanti più soggetti possibili il godimento di un diritto o la partecipazione a un sistema o a un’attività.
Di conseguenza, un linguaggio inclusivo aiuta a raggiungere questo obiettivo: partecipare all’inclusione di più persone possibili nei diritti, sistemi o attività sociali.
In che modo un linguaggio riesce a ottenere tanto potere?
Lo spettro del linguaggio
Le parole hanno un incredibile forza: possono distruggere, opprimere, guarire, liberare e generare molte altre emozioni.
Il linguaggio che usiamo, quindi, si muove dentro uno spettro emotivo che va dall’odio attivo all’amore profondo. Come persone attente alle parole e al loro magnifico potere, dovremmo curarci di usarle sempre nel modo più vitale e compassionevole possibile.
Nel 2016, Alex Kapitan, copy editor radicale, ha scritto un articolo sullo spettro del linguaggio, analizzandone le sfaccettature e il modo in cui si colloca nel nostro vissuto.
Riporto qui la sua classificazione perché credo descriva molto bene le sfumature che le parole possono assumere e il grado di inclusività che sottendono.
Il linguaggio violento
Partiamo dall’estremo più negativo che, sono sicura, non è difficile identificare.
Il linguaggio violento è quello che comunica odio, disgusto, intolleranza.
Gli esempi di linguaggio violento popolano le discussioni social, le sezioni dei commenti dei quotidiani online o certi dibattiti televisivi.
Il linguaggio cifrato
Il linguaggio cifrato comunica, anche lui, pregiudizio ma in modo più velato. Chi lo usa può farlo inconsciamente o consciamente e, in questo secondo caso, come sostituto del linguaggio violento.
Rientrano nel linguaggio cifrato quelle espressioni che comunicano disprezzo, intolleranza e giudizio, sostenendo uno status quo oppressivo.
Tra gli usi più comuni di linguaggio cifrato, mi viene in mente l’osservazione che spesso molte donne si sentono rivolgere:
Non vorrai mica andare in giro vestita così.
In questa frase non ci sono parole d’odio o di disgusto, ma tutto il giudizio su come una donna dovrebbe vestire passa per la negazione iniziale e per quel pungente così finale.
Il linguaggio indiscusso
Usiamo il linguaggio indiscusso tutti i giorni, spesso senza pensarci due volte e senza che costituisca un problema. Può trattarsi infatti di un linguaggio benigno, accettabile, che però a volte nasconde sottili spunti che impregnati di privilegio, valori tradizionali o vecchie norme sociali che vogliono definire cosa sia normale e cosa no.
Esattamente come le calze color carne.
Per decenni, e spesso ancora adesso, l’industria calzaturiera ha usato l’immaginario color carne per definire un prodotto di color beige, chiaro.
E che dire, però, della carne di persone con la pelle più scura? Di che colore sono le loro calze?
Il linguaggio minimizzatore
Il linguaggio minimizzatore creare molta confusione perché parte dalle più buone intenzioni.
A livello superficiale, sembra far uso di parole positive e solidali con la diversità umana; eppure, spesso, chi lo usa non ha fatto il lavoro necessario per mettere in discussione e smantellare i valori, gli standard e le norme che sostengono l’oppressione di determinati gruppi di persone.
È il caso di chi afferma con orgoglio “Io non vedo colori né razze“, negando così i problemi che vivono ogni giorno le persone razzializzate.
O l’adagio All lives matter che abbiamo sentito, soprattutto durante negli ultimi due anni, urlato in contrapposizione al movimento Black Lives Matter.
Questo tipo di linguaggio è particolarmente subdolo perché dimostra che cambiare le parole non è l’unico mezzo che abbiamo per smantellare l’oppressione delle persone discriminate. Dietro le parole deve anche esserci un lavoro di consapevolezza, pena lo svuotamento di significato della nostra comunicazione.
Il linguaggio liberatorio
Il linguaggio liberatorio non si ferma alle parole, ma si porta dietro anche i valori e le intenzioni che sottendono.
Afferma attivamente la piena diversità dell’esperienza umana, ma lavora anche per comunicare empatia, compassione e nonviolenza.
È il linguaggio inclusivo nella sua massima espressione perché cerca di descrivere e creare la migliore realtà che possiamo immaginare, un mondo libero dalla violenza in tutte le sue forme; un mondo in cui tutta la vita, tutte le identità e le esperienze sono intese come preziose.
Il linguaggio inclusivo: la definizione.
Ora che abbiamo chiaro lo spettro del linguaggio, possiamo arrivare più facilmente a una definizione di linguaggio inclusivo.
Il linguaggio inclusivo è libero da parole, frasi o toni che riflettono opinioni pregiudizievoli, stereotipate o discriminatorie verso determinati gruppi di persone.
Questo significa che le parole di un testo inclusivo:
- Non rafforzano stereotipi di genere
- Non sono razziste
- Non discriminano le persone in base all’età (quello che in inglese si definisce come ageism)
- Non sono abiliste (cioè non discriminano le persone con disabilità)
Perché usare un linguaggio inclusivo?
Ora, dopo questa definizione e gli esempi che abbiamo visto sullo spettro del linguaggio, magari vi state chiedendo ma chi me lo fa fare?
Scrivere e parlare in maniera inclusiva è un grosso sforzo, perché prima di tutto implica scalzare le nostre stesse convinzioni e i bias inconsci che abbiamo assorbito crescendo.
Metto le mani avanti su questa obiezione perché la capisco bene. Io per prima, soprattutto all’inizio, ho combattutto spesso con questo pensiero.
Cambiare modo di scrivere e di parlare è un grande sforzo: ne vale la pena?
Beh, se state continuando a leggere questo articolo evidentemente sì, ne vale la pena. Però cercherò di darvi anche altre motivazioni. Continuiamo.
Contro l’annullamento simbolico
Nel 1976 il professore di comunicazione George Gerbner conia l’espressione annientamento simbolico, per descrivere l’assenza di rappresentazione, la o sottorappresentazione, di alcuni gruppi di persone nei media. Facile immaginarlo, parlava di discriminazioni basate sulla loro razza, il sesso e orientamento sessuale o lo status socio-economico.
Le parole che scegliamo di usare hanno il potere di far crollare l’annientamento simbolico e restituire identità e dignità a qualsiasi persona. In più, il nostro modo di comunicare nella vita di tutti i giorni crea consuetudini e può finire per dare forma o giustificare ciò che, fino a poco tempo fa, pareva ingiustificabile.
1. Trasformazione sociale
La prima ragione per adottare il linguaggio inclusivo è dunque l’impatto di trasformazione sociale a cui possiamo dare il via.
2. Fiducia
La seconda ragione è il pubblico e il modo in cui scrivere e parlare inclusivamente ci avvicina alle persone: un linguaggio inclusivo fa sentire chiunque accolto e rispettato, porta le persone a fidarsi di noi.
Si tratta di una fiducia ben riposta?
Se scriviamo inclusivamente mantenendo a mente il potere del linguaggio liberatorio che abbiamo visto prima, certo che sì, è una fiducia ben riposta.
3. Empatia
Scrivere in maniera inclusiva tiene conto delle emozioni e delle scelte di chi ci legge o parla con noi. Diventa un grande esercizio di empatia che non può che renderci persone più compassionevoli.
Vi sembra poco?
Per concludere
Quando siamo alle prese con la stesura di un testo e vogliamo assicurarci che sia inclusivo, è sempre bene farci tre domande prima di premere pubblica o consegnare il lavoro al committente:
- Cosa intendo davvero con queste parole? Il mio discorso contiene per caso pregiudizi malcelati, per esempio nascosti dietro un linguaggio minimizzatore?
- Su quali persone mi sto concentrando?
- Sto tenendo fuori persone che potrebbero sentirsi rappresentate dall’argomento del mio discorso, ma che si sentono tenute a distanza dalla parole che ho scelto per veicolarlo?
Scrivere e parlare in maniera inclusiva è una scelta.
Ma si tratta di una scelta fondata su valori comunicativi (linguaggio liberatorio) e sociali (trasformazione sociale, fiducia, empatia).
Come abbiamo visto, il linguaggio inclusivo non si limita alle questione di genere; è invece uno strumento molto più ampio che ha l’obiettivo di includere quante più persone possibili nel discorso, senza discriminazioni abiliste, razziali o generazionali.
Ti serve qualche consiglio su come scrivere i tuoi testi con linguaggio inclusivo? Contattami e parliamone.
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