Come si pronunciano?
Continuare a rifersirsi a una persona trans* con il nome anagrafico (deadnaming) e i pronomi relativi al genere assegnato alla nascita (misgendering), nonostante l’esplicita richiesta di fare diversamente, può causare delle severe ripercussioni sul benessere psico-fisico di chi subisce queste pratiche.
Contributo a cura di Tristan Guida.
Classe 1989, persona non binaria, usa pronomi neutri e maschili.
Ha studiato arabo per cinque anni, ma a oggi ricorda solo come si dice “frullato alla banana”. Dopo aver scritto una tesi sui droni, è precipitato nella voragine del data entry. Ha una dipendenza da podcast e newsletter al punto da invadere quelle altrui.
Lo trovi su Instagram (@giu_stap_punto) dove scrive di identità di genere, body liberation e transfemminismo.
Cosa significa deadnaming?
Il dizionario di lingua inglese Merriam-Webster – che nel 2019 aveva scelto come parola dell’anno il pronome they/them, facendo riferimento al suo utilizzo al singolare per indicare una persona di genere non binario – alla voce deadname (letteralmente “nome morto”) riporta:
«Il nome assegnato alla nascita a una persona transgender e successivamente dismesso con l’avvio del processo di transizione di genere».
Un nome proprio non è soltanto una sequenza arbitraria di lettere, racchiude e riflette l’identità della persona che lo abita, assieme al corpo ne è la prima interfaccia con il mondo.
Quando il genitore o qualsiasi altra figura di cura attribuisce il nome a un nuovə natə, sancisce il primo atto del suo processo di costruzione identitaria, necessario a definire cos’è “io”, a descriverne il perimetro, tracciandone il punto di inizio e di fine, e a riposizionarlo di volta in volta nello spazio rispetto agli altri “io” con cui si trova a interagire: io sono innanzitutto il mio nome, il resto è altro e fuori da me.
Nominare è un atto di affettuosa coercizione: alla nascita nessunə si trova nella condizione di dover sceglier il proprio nome, ci viene affibbiato e ci si cresce dentro più o meno comodamente, finendo per sviluppare un buffo senso di appartenenza che quasi sconfina nella gelosia – vi ricordate lo stupore misto al disappunto quando da bambinə avete scoperto che non eravate glə unicə Marta e Marco nel mondo?
Che quella stringa di lettere gridata da un’altalena all’altra in un parco giochi poteva indicare qualcun altrə a parte voi?
Quando una persona trans* (e con trans* qui indichiamo tutte quelle soggettività la cui identità di genere differisce da quella assegnata alla nascita, che si riconoscano o meno all’interno del sistema binario maschile/femminile) intraprende un percorso di transizione sociale e/o medicalizzata, può sperimentare un senso di progressiva dis-identificazione rispetto al nome anagrafico.
In una lingua come quella italiana, dove la genderizzazione (ovvero la caratterizzazione di diverse parti del discorso, come gli aggettivi o i participi passati dei verbi, finalizzata a esplicitare il genere di appartenenza di qualcunə o qualcosa) complica l’adozione di un linguaggio il più possibile inclusivo in termini di genere, anche la maggior parte dei nomi propri non sono gender-neutral perché identificano in maniera per lo più esclusiva persone assegnate o maschi o femmine alla nascita in base all’osservazione dell’anatomia genitale.
Presentarsi nel mondo con un nome che per convenzione sociale viene associato a un’identità di genere non coincidente con la propria può esasperare un vissuto di incongruenza, soprattutto se non si può o si decide di non intraprendere una transizione medicalizzata che permette un graduale allineamento del corpo visibile con il corpo percepito.
Per questo una pratica comune nei percorsi di affermazione di genere è la scelta di un nome diverso da quello anagrafico, che viene per l’appunto archiviato come deadname.
L’auto-nominazione per una persona in transizione è un atto dal profondo valore simbolico perché sottende alla rivendicazione di una nuova identità sociale oltre che individuale: continuare a rifersirsi a una persona trans* con il nome anagrafico (deadnaming) e i pronomi relativi al genere assegnato alla nascita (misgendering), nonostante l’esplicita richiesta di fare diversamente, può causare delle severe ripercussioni sul benessere psico-fisico di chi subisce queste pratiche.
Se il nome è il nostro “io”, il misgendering e il deadnaming – soprattutto quando non sono frutto di distrazione, ma nascono da una volontà manifesta di discriminazione – negano alla persona trans* la legittimità di abitare lo spazio sociale per come si auto-percepisce e, di conseguenza, per come è.
Le negano il diritto di esistere.