Dice la Treccani:
«Dall’ingl. meritocracy, composta del latino meritum (merito) e –cracy (-crazia).
Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro.»
Quante volte hai sentito parlare di meritocrazia in ambito scolastico o professionale?
Ci auspichiamo che gli ambienti di lavoro siano meritocratici; crediamo che le promozioni sul lavoro, le cariche pubbliche, gli incarichi di riguardo, le proposte editoriali, debbano essere offerte per merito.
Come società fondata sul capitalismo, abbiamo costruito una visione in cui la meritocrazia garantisce che potere e privilegi siano assegnati in base al merito individuale e non alle origini (sociali, economiche, geografiche) delle persone.
Una grande, grandissima retorica collettiva, generatrice di dannosi ritornelli come il sempreverde “se vuoi puoi”.
Una retorica che non tiene conto delle barriere strutturali, sistemiche, sociali, che non permettono a tutte le persone di correre sulla stessa pista e alle stesse condizioni.
Le origini della meritocrazia
La cosa curiosa è che il termine meritocracy, da cui ha avuto origine la traduzione italiana, nasce con intento satirico.
Lo conia il sociologo Michael Young nel 1958 nel suo romanzo distopico The Rise of Meritocracy. Ambientato nel 2033, raccontava di uno storico che ripercorreva lo sviluppo nel tempo della società britannica. Young voleva mostrare la distopia di una società governata secondo “meritocrazia”.
Dice Kwame Anthony Appian in questo articolo sul Guardian:
«In quel lontano futuro, la ricchezza e il dominio si guadagnavano, non si ereditavano. La nuova classe dirigente era determinata, scriveva l’autore, dalla formula “QI + impegno = merito“.
La democrazia avrebbe lasciato il posto al dominio delle persone più intelligenti: non un’aristocrazia di nascita, non una plutocrazia di ricchezza, ma una vera meritocrazia del talento.»
Peccato che Young sia stato preso sul serio. E lui non ne fu per niente contento, anzi. Nel 2001 confessava di sentirsi «tristemente deluso» dal suo libro. Traduco dall’articolo del Guardian:
«Ho coniato una parola che è diventata molto comune, soprattutto negli Stati Uniti, e che di recente ha trovato un posto di rilievo nei discorsi del signor Blair. […]
La meritocrazia aziendale va molto di moda. Se i meritocrati credono, come sempre di più sono incoraggiati a fare, di venire promossi grazie ai loro meriti, possono sentirsi legittimati a meritare qualsiasi cosa.
Possono compiacersene in modo insopportabile, molto più delle persone che sanno di aver ottenuto la promozione non per i propri meriti ma perché hanno beneficiato, figlio o figlia di qualcuno, del nepotismo. Possono davvero credere di avere l’etica dalla loro parte.
L’élite è diventata così sicura di sé che non c’è quasi nessun ostacolo alle ricompense che si arroga. I vecchi vincoli del mondo degli affari sono stati rimossi e, come anche il mio libro aveva previsto, sono stati inventati e sfruttati tutti i modi nuovi di riempire il proprio nido.»
È la legittimazione morale della disuguaglianza, come scrive Vittorio Pelligra in questo bellissimo articolo de Il Sole 24 Ore:
«Qual è il prodotto di questa retorica, se non una sconfinata “hybris”, da parte di quelli che prosperano e, contemporaneamente, un crescente senso di esclusione, risentimento e rancore, da parte di quelli che non ce la fanno?»