Come parlare di sordità senza errori? Lo spiega Chiara Pennetta, divulgatrice sul tema della sordità e specializzata in didattica dell’italiano come lingua straniera.
È laureata in Lettere Classiche e specializzata in didattica dell’italiano come lingua straniera. È ipoacusica da quando era piccola, e ha portato una protesi acustica fino al 2019, quando si è sottoposta al primo intervento di impianto cocleare, seguito dal secondo nel 2020. L’ho conosciuta grazie al suo lavoro di hearing loss advocate, cioè di divulgazione sui temi legati alla sordità (ne parla sia su Instagram che sulla sua pagina Facebook). Con i suoi contenuti cerca di combattere gli stereotipi e i pregiudizi sulla sordità, e di aiutare le persone sorde a non vergognarsi mai di esserlo.
Questo contributo è comparso su Ojalá #3 del 29 marzo 2021.
Come parlare di sordità senza fare errori
Molti dei termini che si usano per riferirsi alle persone con sordità pongono l’accento sulla mancanza, sulla privazione e sulla lesione dell’udito. Per questo, ai fini di un linguaggio rispettoso e inclusivo, sono da evitare: audioprivo, audioleso, minorato dell’udito.
Audioleso, in particolare, pone l’accento sulla lesione: la persona diventa menomata, incompleta, “rotta”.
Anche l’espressione non udente, a lungo considerata più politicamente corretta, ancora una volta si serve del linguaggio negativo per riferirsi a una persona definendola in base a ciò che non è, a ciò che non ha. Evitiamola.
Di sordomuto tanto si è discusso: il termine è ora considerato errato non solo dal punto di vista del politicamente corretto, ma anche da quello medico-scientifico. Le persone sorde (salvo rare eccezioni) non presentano alcuna compromissione dell’apparato fonatorio e sono in grado di produrre suoni.
Tuttavia, la conditio sine qua non per l’apprendimento del linguaggio è l’udito: possiamo riprodurre correttamente solo i suoni che sentiamo bene.
Pertanto, le persone sorde che non parlano, non lo fanno perché hanno una sordità precedente all’acquisizione del linguaggio (sordità preverbale), e non hanno recuperato l’udito e la parola tramite ausili uditivi, riabilitazione linguistica e logopedia.
In Italia, il termine sordomuto è stato sostituito da sordo in tutte le disposizioni legislative vigenti nel 2006 (L. 20 febbraio 2006, n. 95).
Sordo è, appunto, il termine preferito rispetto a quelli sopracitati per maggiore accuratezza scientifica e per la possibilità di riferirsi a una persona a partire da una sua caratteristica e non da una sua mancanza (linguaggio positivo).
Come fa notare Oliver Sacks in “Vedere voci” (uno dei libri più celebri sul tema), però:
«Il termine sordo è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un’importanza qualitativa e perfino esistenziale».
Infatti, alcune persone che hanno una perdita uditiva lieve, e/o compensata tramite ausili uditivi, preferiscono definirsi ipoacusiche (o ipoudenti; cfr. l’inglese deaf vs. hard of hearing).
Come sinonimo di ipoacusico è talvolta ancora utilizzato sordastro, anche se molte persone lo evitano per la sfumatura peggiorativa e spregiativa del suffisso -astro.
Ricordiamo, inoltre, che la sordità non è una malattia. Dunque, cerchiamo di non dire che una persona “soffre di ipoacusia” o “è affettə da ipoacusia/sordità”. Anche espressioni come “ha messo l’impianto cocleare ed è guaritə” sono da evitare.
I termini più adatti per parlare di persone con difficoltà uditive sono, quindi, persone sorde e persone ipoacusiche o ipoudenti.