Ha senso usare la forma maschile come linguaggio di genere neutro? Il design genderless è un mito? O potremmo abbracciare, sia nel design che nel nostro modo di comunicare, i principi della “gender fuckery”? Ho provato a rispondere a queste domande nel numero 24 di Ojalá, la mia newsletter sulla comunicazione inclusiva e accessibile.
Da poco ho imparato una nuova parola: pareidolia.
Deriva dal greco eidolon (εἴδωλον), ‘immagine’, più il prefisso para (παρά), ‘vicino’.
È quel fenomeno per cui il nostro cervello tende ad associare modelli conosciuti – come volti o forme familiari – a stimoli ambigui e casuali.
Ci affidiamo a un’illusione pareidolitica quando ci sembra di vedere nuvole con forme animali o il volto di Napoleone nel profilo del Monte Arcuentu in Sardegna.
Come spiega l’ingegnere informatico ed esperto di neuroscienze Jeff Hawkins, il cervello è una sorta di macchina da pronostico: quando ci troviamo di fronte a informazioni ambigue, abbiamo bisogno di renderle concrete associandole a modelli simili conosciuti.
Ne parlano anche Pascal Gygax, Sandrine Zufferey e Ute Gabriel nel saggio “Le cerveau pense-t-il au masculin?” (Il cervello pensa al maschile?), edito da Le Robert.
Traduco da pag. 52:
«Il genere grammaticale maschile ha anche un significato “generico”, che il genere grammaticale femminile non ha. La nozione di significato generico è già di per sé ambigua. Da un parte può essere interpretato come significato neutro. In termini psicologici, la nozione di neutro può voler dire sia che la persona a cui fa riferimento la parola “il medico” è androgina, cioè non è possibile assegnarle un genere, o semplicemente che non si identifica né nel genere femminile né in quello maschile. In una società come la nostra in cui il genere è spesso considerato binario, è molto difficile leggere il genere in modo neutro.»
E a questo punto il saggio propone un esperimento: prendi carta e penna e prova a disegnare il volto di una persona neutra o androgina.
Una volta terminato, mostra il tuo disegno a un’altra persona e chiedile di che genere è il volto della persona che hai disegnato.
Dicono Gygax, Zufferey e Gabriel:
«Molto probabilmente ti risponderanno che è il viso di un uomo. Nei nostri esperimenti in laboratorio abbiamo provato a usare un software che disegnasse dei volti per i quali era praticamente impossibile dire se si trattasse di uomini o donne. Ma quando li abbiamo presentati alle persone che partecipavano ai nostri test, quasi tutte hanno visto degli uomini. In una società in cui gli uomini sono considerati come “lo standard”, abbiamo probabilmente la tendenza a interpretare dei volti ambigui come maschili.
[…]
Il punto è che la nozione di neutralità è una nozione psicologica che non è facile da definire o concepire. Questo è vero per i volti, ma anche per la forma grammaticale maschile.»
Curiosamente, solo pochi giorni dopo ho trovato lo stesso concetto applicato anche al design (grafico ma non solo). Dice August Tang, product designer queer e trans:
«Il concetto di design universale e senza genere è un’illusione.
Il design svizzero (ndt. lo stile tipografico internazionale detto anche stile svizzero) perpetua l’idea che la mascolinità sia la norma; la mascolinità equivale alla neutralità.
Un esempio parallelo si trova anche nell’industria della moda. L’androginia nel contesto dell’abbigliamento è spesso sinonimo di abbigliamento maschile. Cercando su Google “moda gender-neutral”, la maggior parte dei risultati sono t-shirt, maglioni informi, felpe con cappuccio.
[…]
Per quanto chi lavora nel design possa desiderare di cancellare o neutralizzare il genere, i tentativi di de-genderizzare un prodotto o uno spazio spesso si traducono in uno stile semplice che tende alla mascolinità.»
Tang prosegue mostrando come i tentativi di approcciare il genere (o la sua assenza) nel design, finiscano per perpetrare una visione binaria del genere.
Accettiamo il fatto che non possiamo fare design senza connotazioni di genere. Però, prosegue Tang, possiamo abbracciare la “gender fuckery”, la fluidità di genere nel nostro modo di pensare e creare:
«Il design che riconosce una realtà fluida dal punto di vista del genere ha più potenziale per arricchirsi di cultura, significato e scopo. La “gender fuckery” è la pratica di sovvertire le tradizionali norme binarie di genere attraverso la mescolanza, la fusione e la flessione delle espressioni di genere.»
Perché non creare allora in modo pluriversale invece che universale?
Con un approccio intersezionale ai temi della cultura, della razza, della classe sociale, del genere, della sessualità e della disabilità, possiamo creare soluzioni che celebrano e riconoscono le differenze delle persone, piuttosto che forzarle in un’unica soluzione “neutra”.
È un approccio in cui mi riconosco molto e che in fondo già uso nella mia pratica di scrittura inclusiva: quella che non sceglie una soluzione unica e irremovibile, ma che abbraccia fluidamente la soluzione più adatta al contesto per cui scrivo.
Cosa ne pensi tu?
Lascia un commento