Qui a casa l’altare del día de muertos è ancora composto e illuminato, ma tra qualche ora lo smantelleremo. Anche quest’anno ha ospitato un oggetto o il cibo preferito delle persone care della nostra famiglia e delle amiche che hanno cenato da noi venerdì sera.
In questi giorni di passaggio tra ottobre e novembre in casa nostra prevale la messicanità, che poi tornerà a fondersi in quell’ibrido culturale che — a detta di chi l’ha visitata (non me lo dico da sola ma so che hanno ragione 😬) — la rende così accogliente: oltre al Messico ci sono la Sardegna, l’Australia, pezzetti dell’Italia in cui abbiamo vissuto ed elementi della Catalogna che ci accoglie.
Dopo più di vent’anni di emigrazione e decine di lacci migratori familiari allungatisi su tre continenti, pensarmi semplicemente “calata” in un ambiente multiculturale non è più sufficiente. A casa nostra le culture non si incontrano soltanto: sono ormai fuse in un costrutto unico fatto di lingua ibrida, celebrazioni e ricette riadattate, espressione estetica non incasellabile in una cultura dominante.
È anche per questo che mi sento così a mio agio nel concetto di policulturalità, che va oltre i modelli più classici di multiculturalità (coabitazione tra culture) e interculturalità (dialogo tra culture).
Dalla multiculturalità alla policulturalità
Non voglio addentrarmi in definizioni antropologiche: il concetto di cultura è complesso, stratificato, e non sempre facile da maneggiare fuori da certi contesti. (Anzi, spero che questo mio articolo antropologicamente profano non infastidisca chi di antropologia si nutre per studio o per mestiere.)
Due settimane fa ho tenuto per l’ITCILO una lezione di comunicazione inclusiva a un gruppo di venti persone provenienti da 17 Paesi e 4 continenti. Abbiamo parlato di come far convivere — nelle relazioni, nei progetti e nei team — stili comunicativi molto diversi, spesso modellati da contesti culturali eterogenei.
E ogni volta che si apre il tema della comunicazione interculturale, riaffiorano vecchi schemi e framework un po’ stanchi, che continuano a vedere le culture come entità rigidine, separate e “classificabili”. Approcci che rientrano, di solito, sotto l’etichetta di multiculturalità.
Meno si parla, invece, di un’idea più porosa e vicina a molte delle nostre vite, migranti o meno: quella di policulturalità.
L’approccio multiculturale
Quando usiamo l’approccio multiculturale, parliamo di un ambiente in cui convivono più gruppi culturali, etnici o religiosi — spesso trattati come entità stabili, poco mutevoli nel tempo. Pensa alle Little Italy sparse per il mondo: quartieri dove si sono stabilite e hanno messo radici le comunità italiana emigrate negli ultimi cento anni e dove sono sorti ristoranti, panifici, librerie e associazioni culturali. Quartieri dove si parlava, si cantava e si mangiava italiano; dove si celebravano le ricorrenze italiche in una nostalgica (e a tratti anacronistica) ricostruzione dell’Italia lasciata alle spalle.
È questo l’approccio multiculturale che abbiamo interiorizzato per anni: culture nazionali come compartimenti stagni, catalogabili in base a set di abitudini, idiosincrasie, passioni e cliché.
Per tanto tempo, uno dei framework più famosi per l’analisi delle differenze interculturali è stato quello dell’antropologo olandese Geert Hofstede. Il suo metodo categorizza le culture in sei fattori culturali chiave: l’importanza delle gerarchie di potere, l’individualismo, la competitività, l’avversione all’incertezza, l’indulgenza e l’orientamento al futuro.

Ora: ti basta usare uno dei tanti strumenti che confrontano i Paesi sulla base del framework di Hofstede per capire quanti limiti e generalizzazioni essenzialiste siano inglobati in questo approccio.
Cos’è invece la policulturalità?
La policulturalità si affaccia in questa smania di classificare le culture su noiose linee rette e complica allegramente le cose. Il concetto è stato elaborato e discusso da storici come Robin D. G. Kelley e ripreso da autori come Vijay Prashad, che lo ha sviluppato in chiave anticoloniale e antirazzista.
Mi affascina perché rende giustizia all’indefinibile ventaglio di esperienze e vissuti generati non solo dalla convivenza tra culture, ma anche dall’intersezione tra le stesse.
La policulturalità apre all’assunto — per me molto liberatorio — che le culture si mescolano e si influenzano, in un dinamico movimento che genera l’inaspettato. E che permette alle persone di ritrovarsi non più solo in un’identità “nazionale” ma anche nell’ibrido di una o più neo-lingue e di riferimenti culturali — libri, film, cibi e tradizioni — che non sono “né di qua né di là”.
Policulturalità non significa appropriazione culturale
Preciso a scanso di equivoci: l’approccio policulturale non dà il via libera alla pratica predatoria dell’appropriazione culturale, che è tutta un’altra cosa.
L’appropriazione culturale avviene quando una persona o un gruppo consuma o spettacolarizza elementi culturali di un’altra cultura (spesso minorizzata o colonizzata), senza riconoscerne il contesto, la storia o il valore. Per identificare meglio l’appropriazione culturale considera che di solito si accompagna a uno squilibrio di potere: chi si appropria ha il privilegio di farlo “liberamente”, mentre chi ne è origine non ha avuto la stessa libertà di esprimere o conservare la propria cultura.
La policulturalità, invece, ci permette di creare riferimenti nostri, nuovi, mutanti: sardi, italiani, messicani, catalani e spagnoli, più tutte le eredità che trascendono l’idea di etichetta “nazionale”. Spazi in cui possiamo preservare le nostre tradizioni originarie e introdurne di nuove senza timore di perdere le prime.
Questo articolo è un riadattamento dell’episodio 115 di Ojalá, la mia newsletter sulle parole che accolgono, pungono e trasformano. Un progetto policulturale che abbonda di salsa brava catalana e accoglie incursioni dal resto del mondo, con un occhio di riguardo (e molto amore) per l’America Latina.
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