A gennaio ho tenuto una lezione sulla comunicazione inclusiva al Master in Studi Strategici e Sicurezza Internazionale organizzato dalla Marina Militare Italiana e dalla Ca’ Foscari Challenge School, a Venezia.
Come potrà immaginare chi mi conosce di persona, non l’ho presa con leggerezza. Parlare di fronte a un pubblico formato da personale militare, per me, è forse una delle rappresentazioni più vivide di uscita dalla comfort zone. Mi sono confrontata con persone distanti da me per formazione e punti di vista sul mondo, ed è andata bene.
Non è andata “liscia”, ma è andata bene, perché quello che ne è venuto fuori è stato uno scambio di visioni nuove.
La ruota del potere e del privilegio in italiano
Affrontare i temi della comunicazione inclusiva è facile quando si hanno di fronte persone che, bene o male, la pensano come te o che ti assomigliano. Forse si collocano anche nella tua stessa posizione della ruota del privilegio e del potere:
Durante il PlayCopy 2022 ho presentato la mia traduzione italiana della ruota del potere e del privilegio:
Esercizio
Prenditi il tempo di osservare la ruota e capire dove ti posizioneresti tu, viste le tue caratteristiche personali. Quante delle tue risposte si posizionano verso il centro della ruota, quindi vicine a una posizione di potere? E quante invece rimangono verso l’esterno, nella fascia della marginalità?
Di fronte al pubblico del Master — composto per l’80% da uomini cis — io ero una docente donna cis, con la pelle bianca, senza disabilità visibili (ecco il mio bagaglio di privilegi evidenti) che parlava di femminismo, machismo, sistemi di potere e linguaggio sessista.
Se io sono arrivata in classe con il mio bagaglio di parole e codici nuovi, anche loro ne avevano uno, e imponente, da farmi conoscere.
Non so nulla di sicurezza e strategia militare; non so cosa significhi studiare in una scuola militare; non conosco, se non per esperienza indiretta e superficiale, gli ostacoli di chi sceglie questa carriera. Tanto più se donna, e magari anche madre.
Insomma, io e il mio pubblico avevamo alcuni importanti gap di conoscenza e di linguaggio condiviso da colmare. Nel giro di due ore abbiamo cercato di avvicinarci e trovare un terreno comune.
Ci siamo riusciti, credo, ma non dimenticherò la sensazione di sentire risposte che non avevo mai ricevuto prima agli esempi portati a lezione. Alcune delle mie sicurezze sull’immediatezza di certi messaggi si sono scontrate con una realtà che non avevo tenuto in conto e un mondo che non conoscevo. È stata un’esperienza possente, che mi ha insegnato tanto.
Come si colma un gap di linguaggio condiviso?
La fatica di colmare un gap di linguaggio o di valori condivisi è enorme.
La sento quando faccio esperienze di insegnamento come quella che ho appena descritto.
Ma anche quando mi ritrovo a spiegare cosa significa essere donna in determinati contesti lavorativi.
Quando parlo di emigrazione dalla Sardegna.
Quando provo a descrivere la pesantezza del carico mentale a chi non è stato educato ad agire dietro la spinta di un “per chi” (come diceva Michela Murgia nella prefazione di Bastava chiedere! di Emma Clit).
È una fatica che ho sentito spesso anche in viaggio, forse la più comune tra le esperienze di gap linguistico.
La ricordo bene nella forma delle conversazioni che passavano per lo schermo del telefono, quando – durante un soggiorno di due settimane a Pechino, qualche anno fa – avevo enormi difficoltà a trovare qualcuno che mi desse informazioni in inglese.
Di queste complicazioni linguistiche, e degli incontri meravigliosi che a volte riescono magicamente a generare, parla spesso anche Eleonora Sacco, creatrice di Pain de Route.
Se non faccio male i conti, ho conosciuto Eleonora nove (aiut’) anni fa, quando entrambe contribuivamo alla comunità Facebook di Viaggio da Sola Perché. Ai tempi quello era il più grande gruppo per donne che amano viaggiare da sole. Begli anni, bellissimo progetto. 💙
Ora Eleonora è diventata una grandissima esperta di viaggi in zone del mondo poco conosciute in Italia, soprattutto nei territori dell’ex URSS. Ogni anno viaggia e fa viaggiare le persone in questo modo qui. Ha anche scritto un piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici che ti consiglio caldamente di leggere se ti affascinano i crogioli linguistici e i viaggi in autostop.
Qualche giorno fa, arrivata da poco in Iraq per un nuovo viaggio, ha scritto questo messaggio nel canale Telegram in cui invia aggiornamenti sui suoi progetti:
«Ai tempi avevo scritto un articolo sul vecchio blog Altervista sui cibi più facili e efficaci da cucinare agli ospiti Couchsurfing in viaggio, tenendo conto della reperibilità degli ingredienti e della buona resa data la scarsa qualità degli stessi.
Le paste più facili da fare che in tanti anni di nottate sui divani del mondo avevamo individuato erano pasta al pomodoro, tonno e piselli; pasta alla norma, un po’ più sbatti ma la melanzana fritta è buona a qualsiasi latitudine, anche nell’Artico russo; o la carbonara, ma non nei paesi musulmani. Una volta avevo preparato anche una crema al mascarpone per il panettone, in Polonia, e in Armenia un tiramisù con la smetana al posto del mascarpone: era venuto davvero buono e un italiano lì con me a Erevan non si era accorto della differenza 🙂
Cucinare per gli ospiti è sempre un esperimento culturale grandioso, che ridimensiona il nostro ego culinario italiano e le smanie di colonialismo alimentare.
Spesso, i piatti italiani all’estero nel mondo non occidentale non piacciono molto: per chi mangia speziato il nostro cibo sa di poco; la pasta sembra sempre cruda; la pizza margherita troppo poco farcita. All’estero piace con una montagna di condimenti random sopra, quindi la margherita sembra incompleta, e così via.
Ma al di là di tutto, cucinare per gli altri è un qualcosa che unisce e che porta in casa di una famiglia irachena di un’area rurale un’esperienza assolutamente nuova e altrimenti impossibile da provare. È come uno spettacolo privato, una finestra di evasione, un biglietto aereo per un luogo esotico difficile da immaginare.»
Questo messaggio mi ha fatto brillare il cuore, non solo per la bellezza dell’incontro gastronomico-culturale che evoca. Ma anche perché scardina un punto di vista a cui ci attacchiamo con visceralità e con la convinzione di essere nel giusto: il cibo italiano non piace dappertutto, non è “il più buono del mondo”, come mi è capitato spesso di sentire.
Ci sono un sacco di situazioni in cui un concetto simile, dato per scontato, apre gap di comunicazione enormi, ci costringe a mettere in discussione il nostro credo, le nostre sicurezze e fonti di felicità.
Questo è un estratto dal numero 56 di Ojalá, la mia newsletter sulla comunicazione inclusiva e accessibile. Puoi iscriverti da qui per riceverla nella tua casella di posta o leggerla su Substack.
Lascia un commento